










Il giardino di mio padre non è stato mai addomesticato del tutto. È un luogo denso, a tratti disordinato, dove la natura e gli oggetti si stratificano come ricordi. Gli utensili per la cura del verde — molti dei quali arrugginiti — non vengono rimossi, ma restano lì, a segnare il passaggio del tempo. C’è una casetta di legno costruita da lui, dove ancora si trovano viti, spaghi, potatori, tracce delle sue mani. Bonsai curati con pazienza convivono con erbe alte e selvatiche. Una gatta si muove libera, quasi sempre presente, quasi sempre invisibile. Questo giardino è stato per me un luogo dell’infanzia. Qui c’era mia madre. Qui ora gioca mio figlio. In mezzo, ci sono io: a osservare, a ricordare, a cercare qualcosa attraverso la fotografia. Non si tratta di nostalgia. Piuttosto di una necessità: tornare a uno spazio che continua a parlare, anche quando tutto sembra immobile. Il giardino come archivio familiare, ma anche come campo aperto dell’immaginazione.