


























Nel 2024, una serie di coincidenze mi ha condotto a insegnare fotografia in un liceo artistico a Belluno, presso l’indirizzo multimediale. Fin dall’inizio, ho scelto di usare la fotografia non solo come strumento didattico, ma come mezzo critico e poetico per interrogare lo sguardo: un dispositivo capace di restituire storie, stati d’animo e tensioni interiori attraverso la luce, la composizione, la sospensione di un gesto. Nel contesto scolastico, la fotografia ha lentamente mutato forma. Ciò che era nato come una documentazione delle attività quotidiane è diventato, progressivamente, un terreno di relazione. Ho preso le distanze da un approccio documentaristico, scegliendo invece di costruire immagini in un dialogo consapevole e condiviso con i miei studenti. Il ritratto si è imposto come gesto relazionale: non più fotografia “rubata”, ma una negoziazione intima tra chi guarda e chi è guardato, tra chi offre la propria immagine e chi la riceve. Nel mio lavoro più recente, mi interrogo sulla fragile potenza dei volti e dei corpi adolescenti, sospesi in quella zona liminale in cui l’infanzia si è già ritirata ma l’età adulta non è ancora compiuta. In questo tempo di passaggio, ogni gesto appare assoluto, ogni sguardo contiene un’intera cosmogonia. Sto cercando di costruire un archivio visivo di questo stato di soglia: un’età che non si lascia facilmente nominare, ma che parla con chiarezza attraverso la pelle, le pose, le esitazioni. In quei volti, spesso mi sorprendo a riconoscere qualcosa di me: echi di un tempo passato, frammenti delle mie origini, risonanze sottili che emergono dalla memoria profonda. Il ritratto è diventato così anche un modo per ascoltare, per ricordare da dove vengo, per rallentare e rimanere in presenza. Un atto performativo, fragile e necessario, attraverso il quale il mio sguardo – e forse la mia stessa identità – continua a farsi e disfarsi.